Dott. Arch. Letizia Caruzzo
Percorso artistico di Paolo Fabbro
La pittura di Paolo Fabbro appartiene a tre luoghi: il primo è il Veneto, la terra d’origine; come la pittura veneta quella di Fabbro ha la capacità di rendere effetti di luce assoluta e radiante per il tramite del colore, che è elemento atmosferico vibrante, tanto che i suoi bellissimi cieli subito rimandano a quelli, sontuosi e infiniti, di Tiepolo.
Il secondo luogo è la Lombardia, la terra di nascita e d’elezione, quella terra coi monti stretti attorno alla campagna maestosa, abitata dal lavoro di tanti. C’è infatti nella pittura di Fabbro un’attitudine morale, capace di farsi naturale figurazione, che lega il paesaggio e gli uomini, intenti a lavori umili e antichi, rappresentati con tanta commossa empatia da ricordare certo realismo lombardo dell’Ottocento, tra città e campagna, tra cascine e provvidenze municipali.
La pittura di Fabbro è limpido sentimento e memoria delle opere e delle vite degli uomini; per questa adesione etica e civile, l’autore, non volendo parlare di sé, parla dei pittori amati del secondo Ottocento italiano – Fattori, Mancini, Induno – ma anche degli inglesi Turner e Constable, dello spagnolo Sorolla y Bastida e di tanti altri impegnati nella rappresentazione del reale.
Questo sentimento partecipe e tenero si estende dal mondo umano a quello animale: i suoi cavalli occupano a volte tutta la tela, vibranti in vigorose cavalcate, tanto belli e possenti da ricordare i cavalli di Gaudenzio Ferrari, non tanto per le fattezze e l’atteggiamento – fermi e monumentali, con occhi mansueti dritti negli occhi di chi guarda quelli di Gaudenzio, indomiti e vorticosi quelli di Paolo – quanto per l’osservazione commossa del pittore che li ritrae, stupito di tanta potente bellezza. E poi tutti gli altri animali che condividono con l’uomo grandi fatiche e quiete laboriosa.
Il terzo luogo è forse un’isola o un villaggio lontano sconosciuto e misterioso: Fabbro, che si dichiara orgogliosamente orientalista, avrebbe voluto per sé un destino di pittore esploratore di mondi, al seguito di carovane di mercanti e diplomatici, dove ogni tela è scoperta e conoscenza sensoriale, come fu per Alberto Pasini che, al seguito di una missione diplomatica del governo francese, alla metà dell’Ottocento, si spinse dalla Turchia alla Siria fino alla Persia.
Viaggiare è per sua forma esistere: per Delacroix gli acquerelli del grande Album svelano una avvenuta metamorfosi prodotta dalla scoperta dell’antichità marocchina che frantuma lo slancio romantico proiettandolo verso la specificità della pittura; in modo non tanto dissimile per Fabbro deserti, mercati, villaggi, lidi del Marocco, del Senegal, del Guatemala, del Nepal, dell’Afghanistan divengono luce, forma, colore: espressività gioiosa e incantata.
Si può forse dire però che esista il luogo per eccellenza: è il Mediterraneo, amato per la purezza originaria dell’architettura e per la natura dolce che la completa e decora; e tra tutti i luoghi c’è il villaggio nell’ isola ideale, Albo a Cap Corse, l’approdo sereno in una luce magica, quella del mare, la meta rituale, aspra e profumata, dove rinnovare, estate dopo estate, il rito della pesca in apnea e quello del convivio amicale.
La biografia di Fabbro intreccia questi luoghi e le altre componenti della sua formazione: gli studi d’arte tenuti dal professor Russo al Castello Sforzesco, i corsi di Gino Moro pittore figurativo e quelli di Francesco de Rocchi, maestro di composizione e rappresentazione della luce.
Poi i lavori giovanili lo portarono a condividere una vicenda straordinaria, per Milano e per l’Italia: la vicenda della Rinascente, che intrecciò cultura e mercato, sperimentazione e diffusione di massa di prodotti per l’abbigliamento, la cura della persona, la casa, con ruolo tanto fondativo da rendere definitivo l’affinamento del gusto borghese, proiettato verso un primato europeo che dura fino ai nostri giorni. Paolo è stato abile e originale allestitore di vetrine, proprio grazie al già maturo gusto del colore e dello spazio, ebbe modo di lavorare fianco a fianco di talenti in formazione nei settori della grafica, del design, della moda: Vignelli, Gregorietti, Merlini, Armani e molti altri.
Negli stessi anni Paolo aveva modo di misurare l’efficacia del suo disegno rapido e vivacemente realistico per i cartelloni cinematografici, che si facevano a mano, sera per sera, per i tanti cinema che si assiepavano lungo il Corso Vittorio Emanuele. Poi, forse alla ricerca di una occupazione in un settore in solida crescita, l’impiego come disegnatore presso lo studio dell’architetto Rabiolo, che da subito intuì le doti straordinarie di Paolo nella rappresentazione dello spazio e della massa e lo incaricò di realizzare gigantesche prospettive di edifici immersi nello spazio urbano: la Milano degli anni Sessanta. Fu forse in questo momento che Fabbro ebbe la tentazione degli studi di architettura al Politecnico – molti anni dopo seguiti dal figlio Mauro per sicura vocazione - , subito allontanata per una sorta di idiosincrasia verso l’istituzione universitaria ritenuta sicura sottrattrice di libertà fisica ed espressiva.
Si palesava così un carattere schivo e resistente a qualsiasi condizionamento che non fosse la propria personale vocazione alla rappresentazione del reale, romantica e avventurosa. Niente mercanti né gallerie d’arte, insieme alla consapevolezza che la sua pittura lo avrebbe sostenuto.
In libertà.
Sui treni delle Ferrovie Nord tra Bollate e Milano, ci fu l’ incontro straordinario con Giovanni Testori, che anche lui pendolava tra la casa di famiglia di Novate e Milano. Paolo ricorda di avere ascoltato con venerazione parole e suggestioni sulla pittura, sul paesaggio di Lombardia, sulla letteratura, sul più bel libro mai scritto: I fratelli Karamazov, rispondeva Testori, che forse intuiva nella personalità del giovane che lo interrogava la stessa esuberanza di Mitya, l’ardore schivo di Aleksej e persino il torturato rigore morale di Ivan ….
Lo studio di Castellazzo di Bollate era un autentico rifugio, impervio e suggestivo: un unico grande locale al piano terra si affacciava su una corte contadina di inusuale vastità, a fianco della nobiliare settecentesca Villa Arconati, incastonata tra le nebbie della campagna e le selve ancora intricate del Parco delle Groane.
Paolo ha condotto tutta la sua fertile vita di pittore lontano da ogni circolo, da ogni mondanità compiacente: nessuna concessione al rendiconto utilitaristico eppure felicità nella pittura e vita di passioni e di amici, compagni d’infanzia e gioventù, come Francesco Binfarè, designer magnifico e immaginifico, con il quale ancora scambiare pensieri su forma, spazio, colore.
Ora lo studio di Fabbro è al piano terra di un palazzetto moderno e signorile nel centro di Bollate: fuori non più la campagna ma la roccaforte turrita delle case popolari disegnate da Guido Canella, che Paolo, sempre ostile a ogni conformismo, specie intellettuale, difende riconoscendone la forza simbolica, oggi più che mai, visto che palazzate anodine e presuntuose divorano l’hinterland…
Lo studio del pittore è divenuto man mano un riferimento civico, accogliente ma informale: è stato spesso il luogo dove scambiare opinioni sulla gestione della piccola città, perché Paolo, come da ragazzo, è ancora un uomo mite ed equilibrato, attento e partecipe, nel tempo sempre più autorevole, tanto da essere più volte sospinto verso ruoli istituzionali: sempre rifiutati, naturalmente, forse perché confliggono con un la propria libertà fisica, spirituale ed espressiva.